
Mediterraneo protagonista
di Roberto Oliveri del Castillo (Consigliere della Corte d’Appello di Bari)
Che cos’è il Mediterraneo? Un luogo solo geografico? un concetto culturale? Qual è il suo ruolo e la sua importanza? Domande che probabilmente sono vecchie quanto l’uomo che da millenni si affaccia sulle sue sponde.
Le diverse epoche storiche hanno fornito risposte diverse, e spesso le risposte diverse si sono sovrapposte e intrecciate anche nel medesimo contesto. Quello che è difficilmente confutabile, a prescindere dalle diverse risposte (che spesso risentono della propria cultura o subcultura e dei propri desiderata più che della realtà dei fatti) è che il Mediterraneo è una cultura comune, fatta di concetti, oggetti, gusti, religiosità che parla la stessa lingua a prescindere dalle diverse grammatiche.
Ne hanno fatto oggetto di un interessante approfondimento Amedeo Feniello e Alessandro Vanoli con il loro “Storia del Mediterraneo in 20 oggetti” (ed. Laterza) i quali, partendo dal pane e attraverso la bussola, l’anfora, il corallo fino alla valigia, hanno ipotizzato un percorso comune ai popoli che si affacciano sulle sue sponde, il mare visto quindi come luogo di incontro e di passaggio più che come (o prima che) luogo di scontro e di separazione.
Ma non possiamo capire cosa sia in realtà il Mediterraneo se non partiamo dal fondamentale saggio di Fernand Braudel, “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” (Einaudi), per il quale “Mediterraneo” non è solo ciò che si affaccia sulle sue tante sponde, ma anche chi è “influenzato da” e “ha relazione con”, col risultato di allargare la platea degli attori di questo enorme teatro naturale anche a paesi che col Mediterraneo non hanno una immediata relazione spaziale.
Ed in effetti il Mediterraneo nella sua plurimillenaria storia ha attirato interessi e popoli diversi, non limitati a quelli che insistevano sulle sue sponde, basti pensare alle migrazioni germaniche di IV e V secolo sotto la spinta delle orde mongole dell’Est, che conducono al collasso dell’impero romano d’occidente, alle migrazioni normanne provenienti dalla Scandinavia ed insediatesi nel sud Italia tra IX e XI secolo, dando inizio a quello che poi sarebbe stato uno dei regni più longevi della storia europea e non solo del Mediterraneo, alle politiche di espansione inglesi del XVIII secolo, fino alle trame che portarono alla caduta del Regno delle due Sicilie, o ancora agli sforzi dell’Ungheria di fine XIX secolo per avere uno sbocco sull’Adriatico attraverso la città di Fiume, alla amputazione inferta all’Austria del cd. “Litorale Adriatico”, all’indomani del primo conflitto mondiale.
Attraverso la sua storia fatta di scontri e guerre ma anche di incontri e scambi, come succede tra vicini con cui si litiga ma con cui si convive, il Mediterraneo è destinato per sua natura ad essere un simbolo, un vettore di pace e dialogo tra genti diverse ma simili, e il rispetto per il Mediterraneo, per suo grande habitat fatto di ecosistemi diversi con al centro il mare-lago, come pure viene chiamato, vuol dire rispetto per l’ambiente, per la diversità, rifiuto della violenza e della prevaricazione come delle ingiustizie sociali e delle discriminazioni tra i popoli. Il Mediterraneo è tutto questo e forse anche di più.
In questo momento più che in passato il Mediterraneo è soprattutto luogo di migrazioni e di lutti, e purtroppo anche luogo di scontro politico tra chi ha nei mesi passati escogitato la politica dei porti chiusi e chi l’ha osteggiata. In entrambi i casi negli ultimi anni la politica nazionale ha registrato poco commendevoli strumentalizzazioni effettuate sulla pelle dei migranti, usati per la propaganda di parti politiche opposte. La pelle dei migranti è stata usata dai primi, attraverso l’uso della paura, come arma politica per invocare chiusure di porti e restrizioni, mentre dai secondi l’arrivo indiscriminato è stato usato come arma economica per invocare l’emergenza e ottenere flessibilità sui conti pubblici verso l’UE.
Una politica seria, nazionale come europea, dovrebbe rifuggire dai primi quanto dai secondi, per cercare di mettere con i giusti equilibri al centro non solo le persone e le loro sofferenze, ma anche un diverso modello di economia, che riporti a modelli “fordisti”, abbandonando fallimentari logiche di austerità che l’emergenza legata al Covid-19 ha denudato nella sua fallacia, e tenga maggiormente conto dei numeri socio-culturali dei paesi del Mediterraneo rispetto a quelli del Nord Europa.
Le vicende di questi ultimi giorni, in Italia e in Europa, sono del tutto emblematici.
In ambito europeo, solo una politica che riporti verso sud e verso il Mediterraneo l’agenda politica può consentire di superare le recenti polemiche per l’opposizione di Olanda e Germania alle proposte di adozione di strumenti economici per il superamento dell’emergenza causata dal Covid-19. Ma lo spostamento di asse che si auspica da più parti non può avvenire se non vengono ripensati i meccanismi di funzionamento dell’UE.
Fin quando, infatti, si consentirà a paesi come l’Olanda, che con poco più di 7 milioni di abitanti pretende di dettare norme e regole, e paralizzare l’attività normativa che vede d’accordo tutti i paesi per circa 450 milioni di abitanti dell’UE, la politica europea non farà passi avanti, anzi farà crescere perniciose e strumentali forme di sovranismo, che nell’ambito nazionale tuonano contro le politiche UE, ma poi nel parlamento Europeo smettono di andare d’accordo e votano secondo le inclinazioni e interessi nazionali.
Quello che va sottolineato è che gli olandesi si atteggiano a paladini della correttezza dei conti pubblici e del rigore in ambito UE, ma poi perseguono logiche inverse quando si tratta di fisco, posto che da anni hanno portato avanti politiche da “paradiso fiscale”, teso ad attrarre aziende europee ed extraeuropee, come ad esempio la FCA e Mediaset. Si stenta a comprendere che in una unione anche solo economica, non si possono avere pluralità di politiche come avviene ora, e soprattutto che se si incrina una parte considerevole dell’Unione, come la parte mediterranea, anche il nord prima o poi crolla.
Come ha recentemente sottolineato al quotidiano olandese De Telegraaf, Nout Wellink, ex presidente della Banca centrale olandese: “Non saremo più un nord ricco se tutto il sud cadrà”. D’altra parte i conti sono presto fatti: gli eurobond una tantum potrebbero costare ai contribuenti olandesi 10-15 miliardi di euro; mentre ogni anno l’erosione fiscale ai danni dell’Italia è nell’ordine dei 20 miliardi di euro. Tasse che dovrebbero essere pagate in Italia, ma che grazie alla politica fiscale aggressiva dei Paesi Bassi prendono la strada del nord. Arricchendo gli azionisti e le casse del fisco olandese. Un problema affrontato anche a livello comunitario, ma ai richiami della Ue, l’Olanda ha risposto con un’alzata di spalle.
“La lotta contro la pianificazione fiscale aggressiva è essenziale per rendere i sistemi fiscali più efficienti ed equi, come riconosciuto nella raccomandazione del 2019 relativa alla zona euro” si legge nelle raccomandazioni Ue all’Olanda dello scorso anno dove si sottolinea anche che “gli effetti di ricaduta delle strategie aggressive di pianificazione fiscale tra Stati membri richiedono un’azione coordinata delle politiche nazionali a completamento della legislazione dell’UE”.
Sulla carta, i Paesi Bassi hanno adottato misure per fronteggiare tali strategie, “ma l’elevato livello dei dividendi, delle royalty e degli interessi versati tramite i Paesi Bassi indica che la normativa tributaria del paese è impiegata dalle imprese impegnate nella pianificazione fiscale aggressiva”. E ancora: “La mancanza di ritenute d’imposta sui pagamenti in uscita (ossia effettuati dai residenti dell’UE verso paesi terzi) di royalty e interessi può comportare un’elusione fiscale totale se tali pagamenti non sono soggetti a imposizione nella giurisdizione del beneficiario”.
Insomma, un vero paradiso fiscale. Anche perché l’annuncio di una riforma con l’introduzione di ritenute d’imposta sui pagamenti di royalty e interessi in caso di abuso o di pagamenti verso paesi a basso tasso di imposizione, è rimasto sulla carta. E persino il National bureau of economic research di Cambridge definisce i Paesi Bassi un paradiso fiscale europeo alla stregua di Irlanda, Belgio, Lussemburgo, Malta e Cipro: gli americani calcolano che circa 600 miliardi di dollari di utili (base imponibile) abbiano lasciato il Paese d’origine per volare verso Paesi “più accondiscendenti”. Dublino con 100 miliardi sarebbe la meta preferita seguita da Singapore e dall’irriducibile Olanda. Di più: circa il 35% della somma, 210 miliardi, arriverebbe direttamente dai Paesi europei.
“Secondo le nostre stime – si legge del documento di Nber – lo spostamento dei profitti da un Paese all’altro da parte delle multinazionale riduce gli introiti fiscali aziendali all’interno dell’Unione europea di circa il 20%”.
Come a dire che per ogni 100 euro di utile aziendale, 20 ne vengono drenati dai paradisi fiscali.
Lo scenario, all’interno della Ue, è lo stesso da anni. Da un lato ci sono grandi paesi che per mantenere il loro livello di spesa pubblica hanno importanti esigenze di gettito fiscale, dall’altro c’è chi usa la leva fiscale e attirare nuovi investimenti. Con un sacrificio che spesso è inferiore ai benefici: in Italia – il Paese dove le imprese pagano le tasse più alte – il gettito fiscale delle aziende arriva al 14% del totale.
Tradotto: se uno sconto sulle tasse si traduce in più investimenti e posti di lavoro, la ricaduta sul Paese è positiva con un aumento dei consumi e del Pil, ma se ciò non accade il danno è doppio. E all’interno della Ue i paesi con la tassazione più altra (Francia e Italia) sono quelli a subire le perdite più pesanti. Alla fine del 2016, tra le note del Def, il ministero dell’Economia aveva calcolato che solo all’Italia mancano almeno 31 miliardi di base imponibile. E di conseguenza 10 miliardi di gettito fiscale: soldi che, invece, sono entrati nella casse erariali dei paradisi fiscali europei.
L’adozione di politiche fiscali assimilate in ambito UE è l’unica soluzione, restituendo al contempo in ambito UE la dovuta centralità al bacino del Mediterraneo rispetto al Mare del Nord e al Mar Baltico.
Allo stesso modo, in ambito nazionale è arrivato il momento di abbandonare logiche “coloniali” che prevedano finanziamenti e infrastrutture al centro-nord e briciole al sud, come invece è avvenuto negli ultimi anni. Nel 2014 (Governo Renzi) un articolo di Marco Esposito sul Mattino (“Investimenti pubblici, il clamoroso caso ferrovie”, il Mattino del 26.10.2014) dava atto che nel decreto “Sblocca Italia” (che forse andava chiamato più correttamente “Sblocca Nord-Italia”) venivano stanziati 4 miliardi e 859 milioni di euro per le ferrovie, ma con la seguente ripartizione: 4 miliardi e 799 milioni da Firenze in su, e 60 milioni da Firenze in giù. Tradotto in percentuale fa 98,8% a 1,2%, un 1,2% per una zona geografica dove risiede il 36% della popolazione nazionale. Moltiplicando queste percentuali per i 160 anni dello Stato unitario, è facile spiegare il divario Nord –Sud.
Nel suo “Zero al Sud” (Rubettino, 2019), Marco Esposito ha anche svelato i meccanismi di funzionamento del federalismo fiscale e dell’autonomia regionale, un altro strumento perverso che immaginato per riportare equilibrio tra nord e sud, non ha fatto altro che aumentarne il divario, e dove alla tradizionale dicotomia destra-sinistra (invero piuttosto sfumata negli ultimi anni), si è sostituita quella Nord-Sud, con i parlamentari del Nord ben schierati a difesa dei livelli di spesa dei loro territori, e i parlamentari del Sud segnalati più per la loro disattenzione che altro.
Pertanto, è agevole concludere che la salvezza, per l’Italia come per l’UE, passa per una più equa distribuzione di risorse per infrastrutture e servizi a favore del Sud e del bacino mediterraneo. Senza questa scelta coraggiosa e rivoluzionaria quanto obbligata, l’Italia con la sua crescita prossima allo 0 sarà sempre più marginale nell’UE, e la stessa UE lo sarà in ambito globale rispetto a USA, Cina e Russia: la scelta spetta solo alla politica.
È questa la vera sfida dei prossimi anni.
Image credit: Michael Schulz, Berlinstagram stunning street photography in Berlin
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