
Privilegi o prerogative
di Sergio Di Paola (Consigliere della Corte di cassazione)
Nell’opinione comune essere magistrato è un privilegio che deriva dalla funzione attribuita dalla società a chi amministra la giustizia; è fonte di vantaggi e prerogative, in termini economici e di considerazione collettiva, che lo pongono nella scala sociale ad un livello elevato; si identifica con l’esercizio di un potere spesso difficilmente comprensibile agli occhi della gente, sino ad apparire, non di rado, arbitrario.
Questa rappresentazione, per certi aspetti purtroppo reale, non mi appartiene.
L’esperienza di vita, da magistrato, mi ha consegnato una figura diversa dal giudice, che provo a descrivere mettendo in rilievo alcun tratti che, a mio avviso, sono quelli più qualificanti della figura del magistrato.
Il giudice è un “tecnico” del diritto: maneggia codici, leggi, sentenze per trovare la soluzione del caso concreto. In quest’attività, però, non può accontentarsi di “giocare” con norme e interpretazioni. Deve calare il senso della decisione nella realtà quotidiana. Per far questo deve saper osservare e comprendere le persone, i loro bisogni e i loro interessi, deve scrutare nelle pieghe dei rapporti sociali ed economici, studiare la realtà del territorio che lo circonda. Del resto, il diritto regola i rapporti tra i cittadini e, per essere accettabile e comprensibile, deve dare risposte adeguate e coerenti non con un mondo astratto e virtuale, ma con il tempo e la società in cui il giudice opera.
Il giudice deve saper parlare alle parti del processo e alla comunità che gli ha affidato il compito di esercitare la giurisdizione.
Può apparire una banalità; ma il giudice ha il dovere di utilizzare nelle decisioni un modello comunicativo che sia certo rispettoso del linguaggio giuridico, senza però far ricorso a forme accademiche, né tantomeno a stili ampollosi e ricercati, quasi che la sentenza costituisca un’esibizione o uno sfoggio di (presunte) capacità letterarie.
Deve garantire alle parti che attendono l’esito del giudizio, e ai cittadini che intendano conoscere il contenuto della decisione, la possibilità di comprendere perché un determinato diritto spetta ad una parte, e non all’altra, perché lo Stato impone il sacrifico della libertà a chi ha violato la legge.
Il giudice non deve sentirsi al di sopra delle parti processuali e dei loro difensori e rappresentanti, privati e pubblici. La presunzione di essere depositario delle certezze giuridiche e storiche deve cedere al costante esercizio dell’arte del dubbio, coniugata all’ascolto delle opinioni delle parti.
Così facendo, il magistrato deve guidare -assicurando i diritti di ogni attore del processo- il cammino del giudizio, con l’unico obiettivo di garantire il rispetto delle regole del gioco. E per far questo deve essere e apparire indipendente da ogni condizionamento, interno o esterno al processo. Qualità che si conquista e si consolida solo attraverso atteggiamenti e comportamenti che impongono riservatezza, discrezione, selezione di rapporti personali e sociali; e che si testimonia attraverso la qualità del lavoro e delle decisioni.
Esser magistrato non comporta sempre la condizione di esser al centro dell’attenzione pubblica in termini positivi.
Premesso che la tendenza a piegare la propria professione alla ricerca, narcisistica e dannosa, del modo per apparire come una figura sociale di “successo” è in totale antitesi con lo stile che deve contraddistinguere il magistrato, il giudice deve essere consapevole che ogni decisione lascerà una delle parti del processo insoddisfatta e potrà essere non condivisa, se non criticata, dalla pubblica opinione. E deve saper trarre dalle critiche e dal giudizio altrui lo spunto per riconoscere gli errori commessi e migliorare la qualità del proprio lavoro.
Il giudice, dunque, ha il compito di rendere un servizio da assolvere nell’interesse della collettività mettendo a disposizione le proprie capacità, intellettuali e morali, al fine di assicurare il riconoscimento dei diritti individuali e collettivi tutelati dall’ordinamento. Questo, sì, che è un privilegio; e al tempo stesso è una servizio faticoso, sovente prestato a prezzo di pesanti sacrifici, a volte insoddisfacente per le parti e – inevitabilmente – per il giudice.
Photo credit: Vessel – NYC gazzettadiparma.it
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