
Sul ponte delle spie
di Nicky Persico (Avvocato in Bari e scrittore)
“Essere avvocati”.
È un tema grande, ingombrante. Intrigante, affascinante, scomodo, commovente. Struggente, infine.
Sono questi i pensieri, in sequenza, che ho rapidamente percorso dal momento in cui Anna Losurdo mi ha annunciato l’argomento sui cui verte l’edizione attuale.
Inizialmente, in verità, ho letto il suo messaggio e non ho avuto nessuna apparente reazione. Ma è durato poco, tutto questo. Forse un paio di minuti. Forse meno. Poi è successo qualcosa: come un movimento tellurico profondo.
Sentivo una gran voglia di esprimermi, ma per poterlo fare – a fronte di qualsivoglia angolazione avessi scelto – dovevo necessariamente e propedeuticamente rispondere a una domanda alla quale credevo di non aver mai risposto prima. Una domanda che avevo sempre accuratamente evitato di porre a me stesso apertamente, e che invece ho dovuto inconsciamente affrontare molte volte, in realtà, nella mia vita.
Tutte le volte che ho fatto una scelta di tipo professionale, per l’esattezza. Tutte le volte che esisteva una possibile alternativa procedurale, o strategica. Tutte le volte che non avevo nessuno a riferimento, perché nessuno poteva consigliarmi tranne me stesso.
All’inizio, dicevo, rispetto a questo tema ero disorientato dalla vastità di aspetti che la mia mente mi proponeva, poi ne sono rimasto intimorito, quasi a voler rifiutare il confronto.
Ho iniziato – per esplorare una risposta – a chiedermi chi fossi io, nel ruolo, e inevitabilmente a ricordare. Gli esordi. L’entusiasmo, i sogni, i primi tempi e le infinite energie disponibili e profuse.
E poi anche un’onda di ricordi sublimati: scomodi. E di nuovo quella sensazione: quella tentazione di abbandonare tutto ed essere lontano. Dovunque, purché altrove.
Infine, come ogni diga che si rispetti, dopo le prime feritoie sui punti deboli, il crollo. L’onda d’urto che ti travolge, e improvviso anche il silenzio, nel tumulto delle correnti sotto il pelo dell’acqua, e al di sopra i flutti: caotici, impazziti. Impietosi. Trattenendo il fiato, in attesa che tutto ritrovi il suo equilibrio, che sia possibile riemergere, e poter tornare a respirare. E intanto riuscire a pensare con lucidità.
Ho scelto di partire da qui: di provare a descrivere questo anche, in fondo, a me stesso.
Essere avvocati, allora, è talvolta gestire le dighe che rompono gli argini, e conservarsi impassibili: affidabili.
E abituarsi a farlo sempre più spesso. E sempre più in fretta.
Imparare a dimenticare tutte quelle correnti invisibili e travolgenti, quel frastuono ovattato dalla sommersione: tutte quelle cose che dall’esterno non è possibile vedere.
Tutte quelle cose che invece questa volta voglio ricordare.
Come gli abbracci esultanti con un collega non appena fuori dalla vista di chiunque, nei corridoi di un palazzo lontano. O le lacrime di nascosto condivise su un aereo leggendo carteggi che lasciano il segno anche se non vuoi, e tutto quel mondo che come ogni altro avvocato di questa terra ti porterai dentro per sempre e che a nessuno, né mai, potrai raccontare. Ma esiste, ormai: fa parte di te.
Si manifesta, sovente, nel rispetto del dovere di colleganza: nell’approccio reciproco di chi sai averlo vissuto e viverlo esattamente come te: perché di certo ci siamo finiti tutti, prima o poi e ognuno a modo suo, sul “ponte delle spie”.
È un mio modo di dire che ha alla base una vicenda intricata – narrata nel film omonimo – in cui l’avvocato Donovan tratta la liberazione di un prigioniero Americano durante la guerra fredda: in cambio di una spia Russa. Una partita a scacchi in cui quel professionista doveva comprendere quali fossero i pezzi, i rispettivi movimenti, e anche come fosse composta la scacchiera stessa su cui si svolgeva il confronto.
Esattamente come ogni avvocato fa, in misura variabile, pressoché ogni giorno.
Un contesto in cui il protagonista, trovatosi a difendere la spia stessa e per questo accollandosi il disappunto dell’intera nazione, non aveva alcuna idea di quale esito avrebbero avuto le sue scelte professionali, ma doveva – senza avere alcun riferimento tranne se stesso – decidere, e agire. Era sotto, immerso e ormai travolto, a gestire la diga che aveva rotto gli argini – appunto – dovendo conservarsi impassibile: affidabile.
E Donovan ci riesce a tal punto che la partita, alla fine, la conduce lui: gli Americani in cambio diverranno addirittura due, non ci saranno incidenti diplomatici che potevano condurre ad un conflitto nucleare, e l’agente segreto Russo gli conferisce la considerazione di “Stoikiy Muzhik” (стойкий мужик): la meravigliosa caparbietà morale di “uomo stoico” in una accezione piena di dignità e fierezza di sé. Commovente.
Ma “la vita non è un film”, diceva il praticante avvocato Flachi in Spaghetti Paradiso: lo cito per malcelato narcisismo, dato che quel libro l’ho scritto io, ma vi prego di credere che in realtà è soprattutto per dire che di questi argomenti avevo già narrato ampiamente, descrivendo i rapporti tra il giovane e impetuoso neofita del diritto verso il signorile e misurato dominus Spanna, che in uno studio legale del centro di Bari duettavano stabilendo e ristabilendo equilibri in continua evoluzione.
Un dominus magistrale, che lo bistratta con affetto e gli indica la via per essere un professionista – mentre senza darlo a vedere ne condivide l’impeto e la freschezza – ricordandogli che superare i limiti diviene dannoso per l’efficienza del proprio operato, e presto o tardi anche per le proprie coronarie: cerca di insegnargli a non finire travolto dalle correnti.
Anche questo, è essere avvocati.
Sono così tante, le cose che vorrei dire, gli aspetti che vorrei e che dovrebbero essere affrontati.
Lo avevo detto che è un tema grande, ingombrante, scomodo anche.
A parte questo, l’avvocato Donovan è esistito davvero, e ha fatto realmente quello scambio di prigionieri.
Molti film hanno narrato le storie di avvocati o storie in cui gli avvocati sono protagonisti: il lato affascinante è sempre presente, in questa professione. Per l’aspetto umano, principalmente, che è poi quell’angolazione che sto cercando per come posso di esprimere qui secondo quello che è il mio personale vissuto.
Molti anni fa, invero, uno dei primi che ho visto si intitolava proprio “Avvocato!”: era, come molti sanno, basato sulla storia del Presidente dell’Ordine di Torino Fulvio Croce, barbaramente ucciso dal terrorismo dopo aver assunto la difesa di alcuni imputati: per probità.
Dopo averlo visionato pensai di lui che fosse un uomo tutto d’un pezzo: l’equivalente di quel che poi ho saputo poter essere definito “Stoikiy Muzhik”.
Decisamente, questo appellativo è un omaggio a tutti i professionisti eccezionali come loro – naturalmente uomini e donne senza distinzione alcuna – che hanno aiutato e aiutano a compiere determinate scelte quando non è possibile avere altro riferimento se non noi stessi. E loro.
Li ringrazio profondamente perché su ogni mio pur minuscolo “ponte delle spie” ero solo: ma davvero solo non mi sono mai sentito.
Per questo so, anche, che ogni collega è per me “Stoikiy”, e non lo dimentico mai.
Io, dal mio canto, affermo che naturalmente che non sempre le mie decisioni sono state esatte, o le migliori possibili. Faccio mia, in proposito, una frase di “A civil action”, altra imponente opera cinematografica che affronta importanti tematiche, a proposito delle scelte professionali e della galassia di eventi pratici e riflessi umani che ne vengono coinvolti:
“se potessi in qualche modo tornare indietro con quello che ora so, conoscendo già la fine che farei lasciandomi coinvolgere in questa avventura, conoscendone la posta in gioco, tutti i rischi, e le varie sfumature, lo rifarei”.
E auguro a me stesso e nel mio piccolo di poter avere sempre la prudenza, la forza e quel poco di umile saggezza che mi consentano di dire per ogni scelta futura, tornando indietro, ancora una volta “lo rifarei”.

Photo credit: Michele Durazzi – www.stashmedia.tv
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