Torniamo al lavoro

Torniamo al lavoro

di Giuseppe Artino Innaria (Giudice del Tribunale di Catania)

«Torniamo al lavoro… Tutto tempo sottratto alla carriera». È una battuta di successo di Carlo Rossella, che mi ha sempre lasciato disorientato.
È veramente una pia illusione scommettere ancora sul proprio lavoro, convinti che la competenza, la disciplina, l’impegno, il valore effettivo dei risultati rendano davvero ai fini del successo professionale? O piuttosto contano di più la rete di relazioni sociali, gli appoggi, le aderenze, le appartenenze, gli agganci giusti, l’antica e mai tramontata raccomandazione?
In Italia sembrerebbe lontana abitudine privilegiare la seconda, e più comoda, strada.

Nel Codice della Vita Italiana, datato 1921, Giuseppe Prezzolini sosteneva che “Il furbo è sempre in un posto che si è meritato non per le sue capacità, ma per la sua abilità a fingere di averle” (art. 5) e che “L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi che non fanno nulla, spendono e se la godono” (art. 10).
La sensazione è che, malgrado i cent’anni trascorsi, poco o nulla sia cambiato.

E, quindi, darsi “al lavoro” ha perso sempre più le sue basi motivazionali, mentre la “legge di Peter” – in ogni organizzazione ogni dipendente tenda a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza – pare avere costruito una piramide invertita, in cui più si sale di gradino nella scala gerarchica e più è facile trovare i meno meritevoli.
È non è solo la demeritocrazia ad affliggere il lavoro contemporaneo, specie nel pubblico.
Lo è altrettanto la precarietà, il tramonto del posto fisso, che genera ansia ed impossibilità di costruire progetti di vita solidi e duraturi.
Lo è l’automazione, che divora posti tradizionalmente collocati nel settore manuale e adesso insidia pure le professioni intellettuali con l’intelligenza artificiale.

Siamo, dunque, prossimi alla “fine del lavoro”, preconizzata da Rifkin nel 1995, tanto come mezzo di sussistenza quanto come percorso di realizzazione esistenziale?
Eppure, da giurista, mi viene in mente che il legislatore del ’42 aveva apertamente dichiarato la volontà di assegnare al lavoro un ruolo centrale nella vita economico-sociale, intitolandogli il Libro Quinto del Codice Civile, tanto da includervi tutta l’ampia gamma delle attività umane, che producono reddito, dalle professioni intellettuali al lavoro subordinato, addirittura l’impresa e le società, che di norma concettualmente vengono associate al capitale.

Invece, a quasi ottant’anni di distanza, quella centralità è poco più che un ricordo, l’erosione progressiva delle tutele dei lavoratori, frutto di sudate conquiste, non suscita proteste eclatanti, il dibattito pubblico si è spostato dai diritti sociali a quelli civili, quasi che la lotta per la promozione dei secondi non possa conciliarsi con la conservazione dei primi.

La forza-lavoro, il Quarto Stato, non è più in avanzata irresistibile, come nel quadro di Pellizza da Volpedo del 1901, ha smarrito strada facendo fiducia ed ottimismo, ed il Nuovo Millennio la sta relegando ad una posizione marginale. Siamo ormai nell’era del “lavoro debole”. Nella creazione di ricchezza, altri fattori giocano una funzione più importante, il capitale tecnologico, la finanza creativa.

Ha senso “tornare al lavoro”, se il futuro è destinato ad essere in mano alle macchine e agli algoritmi?

Sì, se si pensa che l’idea di lavoro ha una forte connotazione umana, e la dignità, il rispetto e la tutela che il lavoro si è guadagnati nella civiltà occidentale sono tipicamente intrecciati al valore che via via si è dato alla persona. Il lavoro non è una merce, non è un fattore della produzione assimilabile al capitale, perché il lavoro è inscindibile dall’essere umano che lo presta, il lavoratore è una persona kantianamente fine a se stessa, che non può essere sfruttata.
Andare oltre il lavoro reca con sé il rischio di addentrarsi nel regno del post-umanesimo o trans-umanesimo, che dir si voglia, dove tutto ciò che è umano diventa sostituibile con qualcosa di non-umano, fors’anche di inumano.

“Tornare al lavoro” mi affascina, poi, come sfida contro i furbi carrieristi, che della “fine del lavoro” fanno una vocazione, pianificando la propria vita professionale per raggiungere il prima possibile l’agognato posto, in cui finalmente non lavoreranno più e faranno lavorare gli altri al posto loro.
Beh, dipendesse da me, medici e giudici, li farei tutti soldati semplici a vita.
Sottrarre il lavoro alla carriera, un bel modo per tornare a lavorare…

Image credit: Helin Bereket, 2018
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