Una società pregiudicata

Una società pregiudicata

di Tania Rizzo (Avvocata in Lecce)

Si sa. Il pregiudizio è comunemente inteso quale forma di stigmatizzazione preconcetta delle opinioni altrui.
Tuttavia, a chi come me partecipa quotidianamente e per dovere di legge allo sviluppo del giudizio, rappresentazione formale dell’esito di un processo a carico di altri esseri umani, non può che dolere il mero dubbio di non aver sufficientemente impedito che quella persona sia pregiudicata.

Non è, quindi, affare personale, opinionistico o di folklore dialettico.

Il pregiudicare appartiene alla forma più alta di giudicare ma deve esserne escluso in modo chiaro e certo per non annebbiare il percorso intellettuale del giudicante.

Non è ammissibile, senza ricadere nel caso di ricusazione individuato dall’art. 37 c.p.p., che nel corso di un processo il giudice esprima o lasci intendere di aver già vagliato la situazione che gli si prospetta e di essersi “già fatto un’idea” (rectius: aver deciso): questo equivale, infatti, a svilire il percorso di formazione della prova ad opera delle parti, al solito esito del quale il giudice può ritirarsi per valutare e decidere su quanto dinnanzi a lui formato.

Viceversa, salterebbero i cardini del processo, non servirebbero più le parti processuali e il giudice si trasformerebbe in poliziotto/inquisitore/carceriere, e la nostra costituzione e il nostro codice di rito potrebbero tranquillamente servire ad accendere il fuoco nel camino.

Se, quindi, pregiudicare qualcuno che è sotto processo è così dannoso, perché assistiamo a continue rappresentazioni di virilità inquisitoria con conferenze stampe e titoloni sparati a lettere cubitali quando tizio è appena stato arrestato o solo indagato in un processo?
A chi giova fomentare la cultura sociale sul dovere di stigmatizzare chi non ha subito un regolare processo e non è stato giudicato da chi ne ha il potere e il ruolo pubblico?

In questi giorni è stata vagliata dalle commissioni di Camera e Senato lo schema del Decreto Legislativo che recepisce la Direttiva dell’U.E. sulla presunzione di innocenza.

Personalmente, non credo sia utile l’ennesima pantomima normativa su principi e concetti costituzionali che ci appartengono da decenni: la non colpevolezza fino all’ultimo di grado di giudizio e fino alla definitività di una sentenza fa parte del nostro bagaglio culturale ma, evidentemente, non di quello sociale.

Ecco, quindi, che si apre il proscenio della poco nota – fuori dagli ambiti forensi e giurisdizionali- questione del gigantismo politico delle procure e delle testate giornalistiche a loro vicine.

Pare che tutto sia nato durante tangentopoli, nel momento di massima criticità politica del nostro Paese, con un’intera classe dirigente rigirata come un calzino, quando un pool di magistrati della procura più nota d’Italia (oggi dilaniata da crisi interne, guarda caso) aveva bisogno anche del sostegno della gente comune, delle persone, della società; ma io credo che il vero sprone a questa battaglia di cultura sia scaturita con l’avvento del cosi detto nuovo codice di rito penale, che indicava il pubblico ministero come mera parte processuale e la polizia giudiziaria come ancella a questo ruolo.

Dismessi per legge i panni del deus ex machina quale potere si rappresentava?

Credo che la visione di possibile -e mai attuata- parità tra chi rappresenta la pubblica accusa e la difesa privata dei cittadini abbia innescato una competizione impari nella quale ogni strada è stata battuta e ogni arma affilata.
Cosa c’è, in effetti, di più forte, di più incisivo, di più duraturo della mentalità sociale che permea la nostra vita, ne colora scelte, pensieri, parole?

Giù la maschera, allora.

Ci troviamo da quasi tre decenni ad assistere alla lotta quotidiana, da un lato, delle norme costituzionali e processuali che definiscono sacra la libertà di decidere del giudice e la non colpevolezza di chi è incappato nelle maglie della giustizia penale fino a quando una decisione/sentenza del giudice non diverrà definitiva e, dall’altro lato della barricata, la necessità delle procure di riaffermare dinnanzi al sentire comune quella centralità processuale che il nuovo codice ha azzoppato, almeno sotto il profilo formale.

Tutto questo inneggiare alle indagini investigative, alle forze dell’ordine che arrestano sotto i riflettori, sfondano porte mentre vengono fotografati ad uso e consumo di lettori sempre più eccitati dal carnevale della cronaca giudiziaria, tengono conferenze stampe con svelamento di particolari investigativi che, per legge, non saranno resi noti agli stessi indagati e ai loro avvocati se non in tempi molto futuri, paradosso della legalità… esattamente a cosa ci ha portati? A chi è servito?

Intanto, mi pare che possiamo definirci una società pregiudicata.

La nostra verginità di pensiero su quanto ancora non conosciamo di una data vicenda giudiziaria è manipolata con forza da subito: ci vengono subito sbattute in bella mostra volti, nomi, età, particolari su usi e costumi del presunto colpevole e ugualmente della presunta vittima.
Non usiamo mai i verbi al condizionale ma siamo padroni del presente, del futuro e dell’imperativo, assolutamente certi che la verità è, sarà e sia essa come pensiamo noi.

Pregiudicati da noi stessi, da quello che ci viene venduto come depositario di inattaccabilità senza appello alla ragione e al ragionamento.
Pregiudicati nelle scelte politiche, perché applaudiremo sempre chi inneggia alle manette, al carcere, alla emarginazione invece che alla rieducazione come crescita dell’individuo e della società.

Siamo ciò che leggiamo, che ascoltiamo, che vediamo e ne vediamo di cotte e di crude ma sempre parziali, mai nel complesso. Soprattutto mai nel momento di vera decisione.

Eh sì, perché poi capita spesso che chi è incappato nella palude della giustizia ne esca pulito o comunque paghi il suo debito e poi voglia vivere con la dignità che mai dovrebbe essere elisa dalla testa di un essere umano.
Ma di questo, del dopo, del post conferenze stampe nessuno ne parla, men che meno i giornalisti delle cronache giudiziarie perché oggi vi è già un’altra inchiesta, altre indagini, altri arrestati da sbattere in prima pagina per alimentare il consenso del pregiudizio.

Pregiudizi che alimentano altri pregiudizi fin tanto che è l’altro a essere sotto i riflettori: e su questo, valgano le esperienze recenti di amici di leader politici, affamati costruttori di pregiudizi su altri finché l’occhio di bue non si è acceso sulla loro vita.


Image credit: PublicDomainPictures da Pixabay

di Tania Rizzo su Ora Legale News

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