Diritto e magia
di Fabio Cesare (Avvocato in Milano)
Non è possibile amministrare il diritto senza fare cose con parole.
Quando il Tribunale condanna, non afferma, ma crea uno status giuridico.
Allo stesso modo se accerta o costituisce un diritto.
Il giudicato, magicamente, facit de albo nigrum, originem creat, aequat quadrata rotundis, naturalia sanguinis vincula et falsum in verum mutat.
Nemmeno Harry Potter trasforma il bianco in nero, crea un punto di partenza, rende rotonde le cose quadrate e trasforma i vincoli di sangue e trasforma il falso nel vero.
Come fare cose con parole, (How to do things with words) è il titolo di un lavoro di John Langhsaw Austin che ha indagato come in presenza di alcune condizioni, un atto linguistico coincide con l’azione che l’atto stesso significa: sono gli atti performativi.
Così il vescovo, quando battezza, impartisce un sacramento; un Tribunale che assolve, libera l’imputato da un’accusa; una dichiarazione di guerra tra Stati coincide con l’inizio delle ostilità.
I performativi sono molto simili alla magia.
Alcuni filosofi scandinavi del secolo scorso (Axel Hägerström, Karl Hans Knut Olivecrona) hanno indagato come molte formule del diritto romano, fossero di natura magica, perché la loro formularità prevaleva sul loro significato.
La locuzione delle parole esatte di un istituto, come la mancipatio, erano in grado di alterare forze metasensibili. Così il diritto era il frutto di un legame mistico tra i soggetti vincolati per effetto di un atto giuridico pronunciato con una formula.
Sarebbe lungo elencare tutte le concezioni della parola creatrice, ma sono comuni a molte civiltà: basti pensare al Vangelo dell’amore che afferma come nel principio era il Verbo e il verbo era presso Dio.
O al modo col quale Yahvé si è presentato al mondo creandolo: disse Luce e luce fu.
La magia si è poi secolarizzata nel diritto, dove la formularità è divenuta erede della dimensione sovrasensibile ormai scomparsa.
Ne rimangono tuttavia diverse tracce irriflesse anche oggi.
Si utilizza ad esempio “laico” non in contrapposizione a “sacerdotale“, come parrebbe ovvio, ma al corpo della magistratura (ricordo le espressioni “componenti laici del CSM” e l’espressione “conoscenza parallela nella sfera laica”).
Ora, una caratteristica sottotraccia della dimensione magica è da sempre la separazione: “magia“, discende dal greco “magheia“, che designa la casta dei sacerdoti zoroastriani depositari di un sapere in grado di dominare le forze della natura.
Si tratta dunque di un sapere misterico e separato dai più che non lo possiedono.
I sacerdoti posseggono un sapere mistico e dunque aristocratico e inspiegabile agli altri.
Ecco una deriva insita nell’amministrazione del diritto che può farci tornare alle origini sacerdotali: l’accostamento di due fenomeni apparentemente non correlati con il pensiero magico, non comprensibile al popolo.
È la mancanza di legittimazione, la mancanza di immedesimazione nel corpo dei destinatari che rende la magistratura autoreferenziale e priva dell’intelligenza emotiva necessaria per aprirsi e legittimarsi.
Questo rischio, insito nella natura del potere fondato sulla parola, può essere superato solo se la magistratura capirà che è necessario ascoltare gli utenti della giurisdizione. Il rischio della divisione sacrale verrà superato se i giudici smetteranno di piegare i cittadini con il linguaggio incomprensibile delle sentenze plasmato dall’autorità e inizieranno a convincerli con provvedimenti chiari, anche se hanno torto, con la forza dell’autorevolezza.
Diversamente, si confonderà ancora autorevolezza e autorità, come nella magia sacerdotale.
E la giurisdizione, che ricordiamo è prerogativa regia, si comporterà come una monarchia sorda ai propri cittadini, aprendo la strada ad ulteriori fratture tra governanti e governati.
Credits: Anicka Yi – In Love With the World
Di Fabio Cesare, su Ora Legale News
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