
Referendum propositivi e giustizialismo
di Vinicio Nardo (Avvocato in Milano)
Negli ultimi 20 anni, Internet e poi i Social hanno drasticamente mutato la società.
Le persone sono diventate media. Abbiamo a disposizione un mezzo che ha la portata di un canale televisivo e spesso non se ne considera la portata e la responsabilità che questo significa.
Da soli di fronte a uno schermo ci si sente sicuri, immuni dal giudizio sociale, eppure si è al centro del palcoscenico di fronte al mondo.
Umberto Eco annotava come i discorsi da bar di provincia, un tempo riservati ad un pugno di ascoltatori magari alticci, ora possono raggiungere il mondo intero.
Ma l’umanità di quel bar non era che un campione dell’intera società che poi è passata ad esprimersi sul web.
In cima al Golgota, come su Facebook, nelle vie della Milano falcidiata dalla peste, come nei bar di provincia, le persone giudicano prima di comprendere. Prevale l’immediatezza del responso sulla fatica della comprensione.
La tendenza a tranciare i giudizi invece che ragionare sulle cause degli eventi si è diffusa, come la peste dei Promessi Sposi. Anche ai livelli sociali dove ci si aspetta di veder privilegiato il metodo conoscitivo al puro istinto.
Le democrazie prevedono classicamente un Parlamento, ossia un luogo dove si discute, dove si ragiona.
Ma lentamente il metodo razionale viene bandito, specie nel territorio più caldo, quello dove la pancia si confronta con il cervello in modo più ruvido: il diritto penale.
La tendenza ormai – e non solo di quest’ultima compagine governativa che pure si è spinta alle conseguenze più estreme – è quella di creare norme penali non in base a studi razionali di settore, non a seguito di una valutazione statistica dei fatti criminosi. Ma su emergenze “percepite” (come le temperature di agosto) e per mandare messaggi rassicuranti alla collettività.
Si dà una risposta in termini di giudizio. Giudizio, non punizione.
La novità è infatti che si sta superando lo schema delle pene draconiane, modello grida manzoniane, per sorpassare la stessa mediazione del giudice: già chiamato ad applicare pene sempre più severe ed ora da spogliare della capacità discrezionale.
Esempio ultimo è il progetto di legge che vuole abolire il rito abbreviato nei casi di reati puniti con la pena dell’ergastolo.
Un’idea in sé irrazionale perché i riti alternativi sono da tutti (anche dai promotori della legge) indicati come strumenti semmai da favorire per ridurre i tempi insostenibili della giustizia.
Ma ancora più irrazionale perché, secondo le statistiche, al rito abbreviato si fa ricorso nella stragrande maggioranza dei processi più gravi. Inoltre perché i numeri degli omicidi efferati sono in costante calo, sicché oggi sono solo una frazione di quelli che venivano commessi vent’anni fa.
Allora si vuole che il giudice in quel caso non sia libero di decidere, non possa scegliere tra ergastolo e trent’anni di detenzione, secondo una valutazione caso per caso, ma debba infliggere l’ergastolo e solo l’ergastolo.
Lo stesso sta avvenendo per la legittima difesa.
Il messaggio, nemmeno tanto subliminale che si vuol trasmettere alla collettività è che nessun magistrato possa giudicare chi si difende dal ladro, vero o ritenuto tale per le apparenze.
È una manifestazione di sfiducia verso la discrezionalità del giudice che non è esagerato definire attacco alla giurisdizione.
E non è senza conseguenze.
Questo tipo di messaggi ha una presa immediata sulle persone, portandole a contestare qualsiasi decisione che non sia la più grave del ventaglio delle decisioni possibili.
La derubricazione dell’omicidio volontario in colposo scatena le urla del pubblico nell’aula. L’assoluzione del gestore della strada per il pullman volato dal viadotto scatena tumulti di piazza. L’imputato che parla, fosse pure per rinunciare alla prescrizione, scatena reazioni negative, poiché non solo merita la pena più esemplare, ma perde anche il diritto di espressione.
Figurarsi difendersi: ogni sua manifestazione viene considerata un atto di ribellione al legittimo castigo.
D’altronde, non solo gli avventori del bar virtuale, ma le massime istituzioni dello Stato sottolineano il bisogno di castigo con espressioni forti: “marcire in galera” e “spazzacorrotti”.
Tutto questo ribalta i parametri ordinari dello Stato di diritto, criminalizza le garanzie dell’imputato, spazza via la presunzione di non colpevolezza, principio cardine di qualsiasi ordinamento che voglia definirsi civile.
La magistratura ha le sue colpe. In passato si è talvolta compiaciuta di questa escalation che comunque le attribuiva un’effimera popolarità.
Ancora oggi, forse, non si rende conto di quanto questo atteggiamento poco meditato – forse anche poco responsabile – si sia trasformato in una nemesi. Lo dimostrano la scarsa reattività dell’Anm a tutela del giudice che assolve, in contrasto con le reazioni verso chi critica le sentenze di condanna.
La malintesa lesa maestà del giudice che liscia il pelo al popolo ha un effetto alla lunga detronizzante.
Per concludere.
Il diritto penale scatena istinti e tuttavia deve essere tenuto al riparo dagli istinti.
Per questo i processi devono essere svolti nelle aule e non nelle piazze mediatiche.
Per questo la legalità formale va anteposta alla legalità sostanziale.
Per questo esistono prove ammissibili e inammissibili, frutti sani e frutti avvelenati della procedura, accertamenti in contraddittorio in luogo di pretese verità assolute.
Per questo è assurdo accettare anche solo per un attimo l’idea di referendum propositivi in materia penale.
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