
Siamo tutti femministi
di Enzo Varricchio
“Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla se non la loro intelligenza”.
(Rita Levi Montalcini)
Siamo tutti femministi, paritàdigeneristi, inorriditi dalla barbarie femminicida, ma – e in questo “ma” c’è qualcosa di troppo – siamo anche capaci di tirar fuori amenità fraseologiche del tipo: “Ho paura delle donne al comando, non sai mai come la vedono?”. “L’assessora ha fatto una scelta uterina”, “Preferisco un giudice maschio, più prevedibile”, “Le presidi donna sono le peggiori, soprattutto dal lato umano”, “Quella va sempre in giro con la scusa del lavoro anziché pensare ai figli”, “Le donne litigano sempre tra loro”, “Le femministe hanno rovinato l’umanità”, “Gli uomini sono più tolleranti”, “Si vede che il capo è un uomo, regna l’armonia”.
Potrei andare avanti a lungo su questa falsariga ma ci siamo capiti. E queste affermazioni provengono indifferentemente da uomini e donne di diverse estrazioni sociali.
Dietro l’apparentemente spessa coltre di egalitarismo che impregna la nostra società ipocrita, si annida il virus micidiale del pregiudizio, del discrimine sessista, duro a morire perché ben nascosto nella pancia della gente.
Cerchiamo di essere il più possibile lucidi e obiettivi. Innanzitutto, chi vi dice che chi scrive non sia un falso egalitarista, un maschilista pervicace e ottuso che si schiera dalla parte delle donne solo perché sarebbe impossibile fare il contrario senza essere scorticati dalla folla? Potreste scoprirlo solo conoscendomi di persona, nel mio privato, laddove si dimostra ogni giorno se nei fatti rispetto allo stesso modo le persone di tutti i generi, e anche dei transgeneri.
Il politically correct è il mezzo più diffuso per mentire, per non arrivare mai al nocciolo delle questioni, per mimetizzarsi tra la folla generalista. E’ nel privato, dietro l’uscio chiuso del menage familiare e amicale, che si materializza il volto oscuro del male.
A volte poi, le femministe sono ipocrite anche loro. Si è da poco sopita la polemica scatenata dalla pubblicità di Philippe Plein in cui una sorta di serial killer mascherato, ribattezzato ‘price killer’, sgozza una donna nel black Friday. Un’immagine di denunzia, sia pure finalizzata al marketing, che tuttavia ha sollevato schiere di indignate contro lo stilista per l’abuso del corpo femminile. Come se i cartelloni pubblicitari di tutte le città non fossero zeppi di immagini di corpi, corpi sia di uomini che di donne più o meno indegnamente mercificati.

E allora, siamo tutti femministi equivale a nessuno è femminista?
Il femminismo, quello originario e profondo, ha probabilmente raggiunto il suo scopo: cambiare la percezione della donna nel linguaggio e nell’immaginario collettivo, rendere possibile alle donne l’assumere tutti i ruoli una volta riservati all’altro sesso. Anche a costo di fomentare l’ostilità verso gli “antagonisti maschi” e imporre per legge le “quote rosa”, una specie di male necessario in un mondo di presunti minorati, quando in un sistema democratico è evidente che se le donne non vengono elette è perché le donne non le votano.
Oggi, se vogliamo uscire dalla contraddizione tra perbenismo pubblico e violenza privata, più che di femminismo abbiamo bisogno di educazione familiare e cultura del rispetto degli altri, del diverso da sé; di pedagogia delle parole e dei sentimenti, di condivisione dei ruoli e distribuzione dei pesi e delle responsabilità.
Perché, come ha correttamente sostenuto Umberto Galimberti, i sentimenti non sono innati, si apprendono a casa, a scuola, sul lavoro, nelle relazioni tra le persone. Quando i sentimenti non vengono espressi ci si rinchiude in un io ignorante, solitario e aggressivo. L’insicurezza, la paura dell’altro, la scarsa pratica dei sentimenti e una diffusa ignoranza delle parole e dei gesti sono le vere cause di ogni amore criminale.
Le donne di oggi non hanno cambiato il mondo perché si sentono ancora sotto osservazione, sotto giudizio, e ne hanno – sia pure inconsapevole – paura; vogliono ancora dimostrare di essere le migliori per sentirsi accettate nei ruoli chiave e in famiglia; hanno timore del futuro, dei ritardi e delle scadenze, del tempo che passa sui loro corpi e che segna le loro anime.
Hanno bisogno di trovare la forza per gridare: “Io non ho paura”, come il bambino segregato in un fosso dell’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti.
Se riusciranno a farlo, le fearless girls si approprieranno finalmente delle loro vite, liberandole da tutte le ansie da prestazione; e potranno insegnarlo anche ai loro figli, figlie, mariti, amiche, amici.
PIC: Il murale di Banksy e Borf dedicato alla giornalista ed artista curda Zehra Doğan, all’angolo tra la Houston Street e Bowery (Manatthan, NY).
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