
Italian haters
di Raffaello Mastrolonardo (scrittore in Bari)
M’interrogo da giorni sul contenuto da dare a questo articolo, su quale tipo di violenza focalizzare l’attenzione: fisica o verbale, attiva o omissiva, sportiva o sessuale, religiosa o razziale. E più m’interrogo, più non riesco a decidere, constatando che tipi e modalità di manifestazione della violenza non solo si sono accresciuti per dimensione, ma sono aumentati per quantità.
Non parlo solo dell’accoltellamento per un mancato diritto di precedenza che probabilmente ha natura patologica, quanto di modalità nuove e raffinate di coercizione come il mobbing, o antiche e grezze come l’appagamento nella brutalità del desiderio sessuale, fuori ed entro le mura domestiche; oppure ancora del bullismo dei ragazzini o sui clochard picchiati o bruciati nelle loro lacere coperte.
Temo, tuttavia, che l’interrogarsi sulle singole modalità e contesti in cui la violenza si esprime sia fuorviante, appanni la capacità d’analisi, limitando la percezione al problema e non alla o alle sue cause.
Son quelle che vanno individuate e, possibilmente, rimosse.
Ne consegue che l’unico aggettivo che merita di essere indagato sia “diffusa“, violenza diffusa. Essa, infatti, ha dilatato i suoi confini, adottato manifestazioni più ordinarie e subdole, modalità non necessariamente fisiche, conquistando ambiti e spazi dai quali fino a ieri ne era esclusa, insinuandosi, anzi appropriandosi della quotidianità di vita.
Un esempio.
Vi è un’espressione ormai d’uso comune su social, stampa e politica molto esemplificativa: asfaltare.
È sintomatica di una mutata modalità di confronto anche politico: non è più sufficiente sconfiggere l’avversario, come accadeva un tempo nella pur esecrata Prima Repubblica. L’avversario è diventato il nemico e quindi va distrutto, annichilito. Asfaltato, appunto.
La facilità con cui la si usa è ancora più preoccupante, poiché ordinaria, del significato in sé. Si sta banalizzando la violenza: la “banalità del male”, per citare la Arendt e tempi ben più cupi.
Un sentimento amaro permea il Paese che sembra non aspetti altro che menare schiaffi, insultare, ferire. Un Paese nel quale non ci si vergogna di dichiarare la propria indifferenza se non l’astio per chi affoga in mare e diviene cibo per i pesci. Lo si fa con tanto di nome e cognome sapendo di poter contare su un consenso diffuso, infischiandosene del disgusto generato in molti altri.
Sembra che la mite nazione d’un tempo, quella degli “italiani brava gente“, si sia improvvisamente mutata in altro. Un popolo dimentico del proprio credo e delle proprie radici, culturali e famigliari. Il “neminem laedere” romano o i precetti d’amore cristiani o lo spirito di tolleranza e convivenza civile liberali, paiono concetti superati a pie’ pari. Mi chiedo quando sia iniziato e come sia potuto accadere.
Quando. Troppo facile rispondere attribuendo la responsabilità a Salvini & Co. per il clima alimentato negli ultimi mesi. Alimentato, appunto, non creato! Per quanto il mio giudizio sia totale, duro e inappellabile devo con onestà intellettuale ammettere che essi non sono la causa del problema, semmai la sua manifestazione.
Certa politica, certo giornalismo, penso abbiano solo intercettato un bisogno, un sentimento diffuso, magari da tempo, che nessuno prima aveva intuito o dal quale aveva distolto lo sguardo. Chiarisco con un esempio di tutt’altra materia. Maria De Filippi non ha inventato un nuovo modo di fare televisione, non ha condizionato le menti indirizzandole a nuove, e per i benpensanti dubbie, modalità d’intrattenimento. Ha solo compreso un desiderio che già esisteva e della cui soddisfazione il pubblico sentiva il bisogno. Idem per certi protagonisti della politica d’oggi e, purtroppo, anche di ieri. Non voglio assolverli, solo cambiare il capo d’imputazione: istigazione a delinquere.
Quasi si sentisse il bisogno di accantonare le buone regole del passato, i freni inibitori hanno ceduto, si è abbassato il livello di tolleranza. Così sta prevalendo la necessità di imporre, in maniera fisica o verbale, il proprio io con buona pace dell’altro e delle sue ragioni.
Mi chiedo perché.
Non sono un sociologo, ma tento di darmi una risposta che, certamente non esaustiva, vuole essere solo un punto di riflessione. È questa: il rapidissimo cambiamento nelle dinamiche delle relazioni sociali e nella quotidianità degli ultimi decenni, non solo in Italia, al quale non si è avuto ancora modo di acclimatarsi
Tutti ci lamentiamo dei ritmi sempre più serrati di lavoro e vita in generale, dinamiche rese possibili da una evoluzione tecnologica inarrestabile che ha prodotto la straordinaria accelerazione.
Tutti beneficiamo di strumenti in perenne evoluzione che consentono una quantità di relazioni con un numero fino a ieri impensabile di persone. I fattori sono dunque due: tempo e intensità delle dinamiche. Il primo per definizione non può modificarsi, le seconde sono esplose. Il che equivale a dire che il tempo non basta più. Dunque, occorre risparmiarlo in ogni processo: lavoro, studio, relazione interpersonale. Così, ciò che abbiamo guadagnato in estensione l’abbiamo perso in profondità.
Alla cultura della comprensione delle ragioni dell’altro, che impone dispendio di tempo e energie, si è sostituita quella dell’imposizione di sé; alla cultura della mediazione, quella della prevaricazione, in un crescendo rossiniano che conduce, dritto dritto, a fenomeni come il bullismo o agli orripilanti post e twitter sui quali preferisco glissare. E tutto il resto a seguire.
Se prima le relazioni si sviluppavano nel limitato raggio della propria comunità e fra un numero limitato di soggetti con dinamiche lente, oggi si dipanano su distanze illimitate, illimitati numeri di soggetti e immediatezza di tempi. Non ce n’è più per riflettere, dunque si risponde di pancia. L’esplosione della quantità di relazioni e quindi di potenziali conflitti ha generato una sorta di “effetto micro onde” miliardi di molecole d’acqua (gli esseri umani), sollecitati da forze esogene, si scontrano tra loro e si surriscaldano, sviluppano calore. Violenza, appunto, verbale e fisica, ma omogeneamente diffusa.
Sia ben chiaro: non sono un nostalgico dei bei tempi andati, né un ipercritico della modernità. Tutt’altro. Essa è il mio mondo, sono convinto che l’Umanità viva molto meglio oggi che in un passato più o meno remoto. Dobbiamo tuttavia essere consapevoli che gli enormi vantaggi di cui beneficiamo hanno un prezzo, un costo individuale e collettivo da sostenere, cui magari rimediare senza rassegnarsi.
Come? Non saprei, ma credo che così come il tempo sia parte del problema in esso ci sia anche la sua risoluzione. Oggi siamo bruciati dalla febbre di cambiamenti troppo acuti e repentini, col tempo spero maturino gli anticorpi indispensabili a farci uscire da questa crisi morale.
Crisi, appunto. Sostantivo di etimo greco (krino: separare, giudicare, valutare) che indica la consapevolezza, presupposto indispensabile per superare le difficoltà di ogni transizione.
Noi ne siamo giusto nel mezzo.
Photo credit: misha-gordin
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