
Maternità surrogate
di Teresa Pagliaro (Avvocata in Santa Maria Capua Vetere)
L’emergenza sanitaria del covid-19 ha scaturito, inevitabilmente, una serie di problematiche sociali ed ha reso precari in maniera esponenziale i diritti umani in ambiti in cui erano già fortemente compromessi.
Si pensi all’aumento dei casi di violenza di genere e domestica, nel periodo della pandemia, ove le libertà delle persone sancite a livello costituzionale sono state limitate, se non azzerate per un bene superiore e primario da tutelare, quale quello della salute, per cui le donne vittime di violenza domestica si sono ritrovate costrette in casa insieme ai loro aguzzini.
La pandemia del coronavirus ha anche inceppato il sistema delle cliniche della fertilità che gestiscono il business dell’utero in affitto, oggi presenti in Ucraina, Stati Uniti e Canada, riportando a riflettere sulle tante discussioni aperte, sia in termini di etica che di diritti degli individui coinvolti in tema di tecnologie riproduttive, di procreazione assistita e di gestazione per altri.
È di questi giorni, il caso più emblematico e sconvolgente, riguardante i 46 bambini ucraini, che in attesa delle coppie committenti straniere, sono stati dislocati in un hotel di Kiev, con alcune stanze allestite a reparto nido.
Infatti, i piccoli nati da madre surrogata vengono allontanati dalla partoriente subito dopo la nascita, per evitare che tra i due si creino legami affettivi e biologici per essere poi consegnati alla coppia committente. Ma data la circostanza emergenziale e il lockdown di questi mesi, con i confini chiusi e il trasporto aereo fermo, i neonati sono rimasti privi della figura genitoriale di riferimento, in quanto non è stato possibile consegnarli alle coppie che, prima della quarantena, hanno sottoscritto contratti concernenti non solo la locazione dell’utero della donna genitrice, ma anche la scelta dell’ovulo, con costi che si aggirano intorno ai 140 mila euro.
Infatti, spesso accade che i servizi siano prestati da donne diverse, una fornisce gli ovuli e un’altra funge da madre surrogata, proprio per evitare che quest’ultima rivendichi i diritti di maternità sul bambino.
La vicenda acuisce i diversi aspetti problematici di una pratica complessa e articolata, tanto sotto il profilo scientifico, quanto sotto il profilo umano e sociale, che frammenta i tradizionali e naturali concetti di padre e madre, in particolar modo di quest’ultima, considerato il numero variabile di figure genitoriali coinvolti e lede i diritti fondamentali delle persone utilizzate in essa.
La surrogazione rimette in discussione il ruolo della donna e il significato della maternità, toccando un aspetto estremamente intimo e proprio di tutte le culture: il legame primordiale tra chi viene al mondo e chi dà alla luce.
A parer di chi scrive al centro della discussione, prioritariamente, andrebbero collocati i diritti dei bambini e quelli delle donne.
Con l’utilizzo di questa tecnica vi è il fondato rischio di ledere, sotto molteplici aspetti, i diritti dei più deboli, degli indifesi, di coloro che non possono parlare in propria tutela, ovvero i minori.
Il neonato è assimilato ad un oggetto di cui si dispone per contratto (di vendita) o altri strumenti di autonomia negoziale, e quindi necessariamente dovrebbe tornare ad essere soggetto di diritto.
L’imprescindibile legame consolidato dall’esistenza del feto/bambino nell’utero materno, attraverso la comunione fisica, biologica ed emozionale, non è per niente un fatto di poco conto. Dal cordone ombelicale che lega la madre e il figlio non transitano solo le sostanze per vivere, ma anche gli ormoni e la serotonina che influenzano il cervello del nascituro. Il legame fetale è di fondamentale importanza e l’allattamento lo rafforza ancora di più.
Di non poco conto è anche la questione relativa al diritto dei bambini e delle persone in genere a conoscere la propria identità biologica e storica.
Le ragioni sono di ordine sanitario e psicologico.
Conoscere le proprie origini biologiche è rilevante per conoscere la possibile presenza di malattie ereditabili, la predisposizione a determinate patologie, nonché ogni altro aspetto legato all’ereditarietà genetica.
Sotto il profilo psicologico, conoscere i propri genitori biologici è un passaggio rilevante nella costruzione dell’identità personale di ogni individuo.
Magari per contrastare il giro di affari costituitosi intorno alle pratiche della maternità surrogata potrebbe essere utile far prevalere il diritto delle persone a conoscere le loro origini, invece che il diritto alla privacy dei donatori.
Nella maternità surrogata la donna diviene strumento riproduttivo utile a soddisfare i desideri di altri, ridotta alle sole sue funzioni biologiche di riproduzione, mutilandone il ruolo materno, ben più ampio e complesso, consistente anche nell’instaurazione del legame col bambino dopo la nascita. Maggiormente quando la maternità surrogata è fondata su un contratto con corrispettivo, ove le capacità riproduttive della donna divengono merce di vendita.
Il contratto che regola la gestazione e la successiva cessione del bambino, diviene intrinsecamente vessatorio nei confronti della gestante, in presenza delle clausole che impongono alla donna di portare avanti la gravidanza secondo modalità che i committenti arbitrariamente decidono essere le migliori per il nascituro.
Infatti, nel contratto spesso è regolata la vita della gestante per tutto il periodo della gravidanza, con imposizione di esami clinici, comportamenti personali, con restrizioni della libertà della stessa, prevedendo l’aborto in caso di malformazioni del feto e la riduzione ad uno solo in presenza di gravidanze gemellari non richieste (clausola di aborto contrattualizzato).
La maternità surrogata, così caratterizzata, viola i diritti umani e nel caso specifico quelli di genere, proclamati dalla Convenzione di Istanbul, che sono: il diritto alla vita, alla sicurezza, alla dignità, all’integrità mentale e fisica, nonché alla scelta e alla salute sia sessuale che riproduttiva.
In una mozione della seduta parlamentare del 4 maggio 2016, in merito alla legge n.40/2004, che definisce la surrogazione di maternità un reato, si legge: la gestazione per altri è “quella pratica basata sulla disponibilità del corpo di una donna, per realizzare un progetto di genitorialità altrui”.
Come abbiamo avuto modo di verificare, nella maternità surrogata, risultano coinvolti diversi soggetti, tutti titolari di diritti fondamentali, rispetto ai quali sorgono delicati problemi di armonizzazione e contemperamento, che in assenza di una puntuale normativa, facilmente possono essere pregiudicati.
Di certo prioritaria tutela è da apprestare al minore, in considerazione della sua connaturata vulnerabilità, ed in quanto tale è indispensabile che venga recepito come individuo, uti singulus, con diritto al riconoscimento dello lo status filii.
Anche a favore dell’adulto che non sia in grado di procreare naturalmente a causa dell’infertilità altrui ossia del coniuge o del partner, non può non riconoscersi il diritto alla genitorialità. Tale diritto è riconosciuto e protetto, ma si configura sul piano giuridico come secondario, posto che il suo esercizio avviene soltanto quando i preminenti diritti del minore sono conseguiti.
Le numerose criticità nascenti dall’esistenza di una pluralità di figure fattualmente o potenzialmente genitoriali, sono state la causa per cui in diversi paesi europei la maternità surrogata è vietata (Italia, Francia e Svizzera).
In altri è autorizzata se però compatibile con garantite condizioni predeterminate dalla legge e sostanzialmente rispondenti all’esigenza che la surrogazione persegua un fine altruistico e non commerciale (Olanda e Regno Unito).
In altri ancora è commercialmente sfruttata da società specializzate che prestano attività di intermediazione a fini di lucro tra le parti interessate (Russia e Ucraina), oppure come in vari Stati nord americani in cui è autorizzata ed a volte, è peraltro oggetto di sfruttamento commerciale.
Concludendo, molto dipende dalla rigorosa regolamentazione normativa della pratica dell’utero in affitto, di per sé molto complessa e complicata poiché investe temi eticamente sensibili, e proprio per questo dovrebbe essere ispirata ed effettuata solo secondo la logica del “dono”, in quanto suscettibile di dar luogo ad un vero e proprio commercio, con ipotesi, almeno in alcuni casi, di surrettizie forme di schiavitù, specialmente in Paesi dove vi sono grosse sacche di povertà, com’è accaduto in India, ove lo scorso anno il Parlamento è intervenuto vietandone l’uso “commerciale”.
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