Revenge?

Revenge?

di Pietro Buscicchio (Psicologo e psicoterapeuta in Bari – Uomini in Gioco/Maschile plurale)

La vicenda è nota. Una giovane donna invia foto e video intimi al giovane uomo con il quale ha una relazione. Questi, finita la relazione, tradisce l’intimità, diffondendo le foto ed I video nella chat condivisa con gli amici del calcetto. Un amico del calcetto mostra foto e video alla propria moglie; la moglie riconosce la maestra del figlio. Quando la maestra apprende della diffusione dei video intimi comunica l’intenzione di denunciare l’uomo; riceve allora telefonate che vogliono indurla a non denunciare.
Nel frattempo, perde il lavoro a scuola, sembrerebbe proprio a causa della diffusione delle foto e video, con buona pace anche della solidarietà tra donne, nel crescente ostracismo delle colleghe, che cominciano ad apostrofarla con l’epiteto più scontato e patriarcale del mondo.

Qui vorrei parlare di un aspetto della vicenda. In questi giorni molte donne (operatrici dei centri antiviolenza, consulte, reti come NonUnaDiMeno), celebrando la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, ricordano come le forme di violenza legata al genere abbiano una profondissima matrice nei modelli culturali connessi al patriarcato. Difficile pensare che a ruoli invertiti e a parità di condizioni, le cose avrebbero preso la stessa piega. Immaginate un lui che apprende che la sua ex per vendetta diffonda tra le amiche della pallavolo le foto intime della loro relazione; dopo aver immaginato questo immaginate che lui si senta offeso e tradito e decida di denunciare, e poi, ancora immaginate che a causa di questo l’uomo subisca ostilità reprimende e insulti dei suoi colleghi di lavoro, e che infine perda il lavoro stesso.

La dimensione culturale che modella i ruoli di genere, dal mito, alla religione, alla letteratura, da circa 6000 anni, ci fa percepire come estremamente improbabili gli sviluppi a ruoli invertiti del revenge porn di Torino. Stiamo qui parlando della potenza degli stereotipi di genere nei loro effetti pratici.

Questa cultura patriarcale, plasmata e raffinata in millenni di dominio maschile, è malata. I sintomi sono numerosi e preoccupanti (guerre, nazionalismi, fanatismi vari, disastri ambientali, femminicidi), ma non chiede aiuto, non si adagia su un lettino per farsi curare (anche perché il lettino adatto dovrebbe essere ampio quanto il diametro del pianeta terra). Non possiamo che intervenire sulle cellule di questo gigantesco corpo malato, non solo disinfettando ferite, ma, anche, provando a inoculare dosi sperimentali di vaccino.

A proposito del revenge porn di Torino mi è venuta in mente la giudice Paola Di Nicola, che, qualche anno fa, nella vicenda processuale legata alla prostituzione di adolescenti della Roma agiata, impose ad un imputato un risarcimento in libri e film su “Storia e pensiero delle donne, letteratura femminile e studi di genere”. Va bene. Ancora meglio, credo, se un po’ di quei libri fossero letti anche dallo stesso “utilizzatore finale”, come, da Niccolò Ghedini in poi, si chiama l’uomo che paga le minorenni per avere sesso.

Leggo che questo ragazzo, il “revenge boy”, dovrà scontare la pena in lavori socialmente utili, e penso che il primo lavoro socialmente utile potrebbe essere l’entrata nella sua psiche di qualche germe di dubbio rispetto alla liceità (non legale ma antropologica) del suo comportamento.
Il mio amico Michele Poli, del Centro Ascolto Maltrattanti di Ferrara, potrebbe essere ben lieto di consigliargli qualche lettura (forse partirebbe dal libro di Bourdieu sul dominio maschile). Magari lo si potrebbe invitare anche a qualche gruppo di condivisione al maschile (proprio dalle sue parti c’è il cerchio degli uomini, un gruppo che da più di 20 anni si interroga sui propri privilegi di genere) ; il calcetto è importante ma non è tutto.

Questi possibili esperienze di vaccinazione potrebbero essere ritenute blandi antidoti, omeopatia velleitaria, ma, citando Alice Walker, “da qualche parte bisogna pur cominciare”.
Se poi si volesse pensare ad una sonora sberla culturale (che non fa male al corpo ma solo alle convinzioni sedimentate), allora, visto che la messa alla prova durerà un anno, si potrebbe anche pensare, in termini di Restorative Justice, a degli incontri con la ragazza. Come auspicava Moreno, l’inventore dello Psicodramma terapeutico nel suo “Invito ad un incontro

…Io ti guarderò con I tuoi occhi
tu mi guarderai con I miei…

In considerazione del fatto che la donna, scegliendo di denunciare, si tira fuori dal ruolo possibile di vittima (e forse anche di ricattata), in questo auspicato incrocio di sguardi e inversioni di ruolo, potrebbe riuscire a collocare lui dove non si è fatta collocare lei, nella posizione di chi prova vergogna.

Allora sì, la giustizia avrebbe fatto il suo corso.

Image credit: Glauco Gianoglio da Pixabay

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