Le radici del male

Le radici del male

di Nicky Persico (Avvocato e scrittore)

Non è questione di carestie, siccità o cavallette.
È ormai lampante: le cicliche crisi che ci colpiscono, indebolendo sempre più il reddito pro-capite e acuendo le disuguaglianze, sono fallimenti del nostro sistema organizzativo: sintomi evidenti del fatto che i nostri modelli “economici” non funzionano.

Eppure noi insistiamo sulla stessa strada. Eppure continuiamo pervicacemente a studiare e a far studiare nelle nostre più “prestigiose” scuole di economia teorie che hanno ormai ampiamente dimostrato di essere obsolete (nelle loro formule radicali) producendo plotoni di “esperti” certificati dal sistema – con tanto di cravatta e religioso riconoscimento – completamente inefficaci: esecutori non pensanti che applicano acriticamente la logica del profitto a tutti i costi come modello vincente e come comportamento premiante: risultati nel breve termine, che li tramutano in sacerdoti di distruzione.
Eppure sono tantissime, le voci di allarme: inascoltate.

Il “sistema” è quello che Stiglitz chiama economia voodoo, nella quale il vero germe vitale del miglioramento – la ricerca – viene ridotta sempre più.
Il cosiddetto “progresso” è quello interpretato da Zygmunt BaumanIl progresso è diventato una sorta di gioco delle sedie senza fine e senza sosta, in cui un momento di distrazione si traduce in sconfitta irreversibile ed esclusione irrevocabile. Invece di grandi aspettative di sogni d’oro, il progresso evoca un’insonnia piena di incubi di essere lasciati indietro, di perdere il treno, o di cadere dal finestrino di un veicolo che accelera in fretta”.

O ancora, la scienza economica come descritta da Ilaria Bifarini (autrice di “Inganni economici – quello che i bocconiani non vi dicono”) a proposito dei “massimi esperti della scienza economica, da loro veicolata come esatta e infallibile. La verità è l’esatto contrario: l’economia, nata come costola della filosofia, è una scienza sociale che si occupa dell’uomo e del suo benessere, che ha perso il suo connotato originario per divenire puro tecnicismo. I continui fallimenti dei suoi dettami e i disastri umani a essi collegati, tra cui quello evidente a tutti della Grecia, dimostrano come non esista un modello unico economico universalmente applicabile e come quello attuale sia inefficace e addirittura deleterio”.

Fenomeni, ancora, in altre visuali – dolose – ampiamente trattati da Sutherland e raccontati da Pierpaolo Martucci in un prezioso testo edito da Laterza dal titolo “La criminalità economica”, in cui il citato Sutherland: “Aveva, fin dal 1934, sviluppato una teoria generale destinata a spiegare la genesi di tutti i tipi di condotta criminosa, nota come teoria delle associazioni differenziali ed incentrata sul comportamento criminale come condotta appresa tramite l’associazione interpersonale con altri individui che già si comportano da delinquenti nell’ambito dei c.d. gruppi primari, ossia la famiglia e la rete delle amicizie e delle frequentazioni paritarie”.

Si sono stratificati, secondo queste visioni, modelli connotati da una rigidità che assurge a metodo, strutturando addirittura una vera e propria resistenza al cambiamento, all’adattamento, al miglioramento. Qualsiasi pensiero non conforme viene trattato con intolleranza: conseguenza tipica dell’arroganza. Una nuova frontiera dell’ignoranza che si autodefinisce sapienza, è la ulteriore conseguenza di questa dilagante povertà delle idee.

Organizzazioni tutte uguali, ne sono il risultato: sistemi autodefinitisi “produttivi” all’interno dei quali, paradossalmente, se qualcuno si rende conto di accadimenti che possono essere negativi viene attaccato da “anticorpi” interni e quindi inertizzato trattandolo come un appestato, deridendolo, bullizzandolo, isolandolo, osteggiandolo ed anche eliminandolo. O ancora, operanti in un costoso contesto sistemico ed imponente di controlli che di fatto viene aggirato con insospettabile facilità, e quindi si rivela completamente inefficace alle finalità di prevenzione (come ad esempio è accaduto nel caso della Banca Popolare di Bari). Qualsiasi grido di allarme, in pratica, viene soffocato, bollato come eretico, e messo al rogo di un mostruoso e ingessato pensiero comune.

È arrivato il momento di rivisitare i dogmi, analizzare le cause e porvi rimedio.
Sempre per dirla con Bauman: “il vero problema dell’attuale stato della nostra civiltà è che abbiamo smesso di farci delle domande”.
Sono tanti, gli effetti di questo male: si spingono, ai limiti delle fasce più colpite, con lo sfruttamento: la povertà miete vittime e crea schiavi. La perversione dei meccanismi trasforma addirittura i consumatori in complici inconsapevoli.

In questo si giunge all’estremo.
Alcuni anni orsono, dopo aver letto la tragica notizia di una bracciante che ha ucciso il suo “datore” di lavoro, in una torbida commistione di sfruttamento anche sessuale, al mattino successivo ho aperto una scatola di pelati. Era domenica. E mi sono fermato a pensare.
Ho scritto, di getto, il testo che segue.

“Ungiornolammazzato”

Quand’è domenica, è sempre bello.
Sveglia tardi, il mondo.
Anche se fa freddo.
E si cucina, se si può.
Qualcosa che sa di casa. Qualcosa che sa di buono.

Ho aperto una bella scatola, di latta. Del color dell’oro.
Sull’etichetta curata, e piena di piccole scritte ordinate a garanzia, c’era la foto.
O forse era un disegno, che non saprei dirlo, con una contadina allegra, e sorridente, china su verdi piante che raccoglieva qualcosa e la metteva in un cesto.
C’era un bel sole, e un gran sorriso a viso aperto.
Ho tirato, piano, un piccolo anello e con un rumore secco s’è aperto il mondo.

Agli occhi, il profumo: quello del rosso di quello strano frutto, o ortaggio, o non so cos’altro ch’era rosso. Rosso color del sole catturato, curato, innaffiato, cresciuto e raccolto maturato.
E nel silenzio del mattino del mondo che dorme ancora, ho sentito.
O forse no. Forse mi son sbagliato.

Forse ho sognato, perché non c’è nessuno. Eppure un suono, come una cara nenia, io l’ho udito, piano.

Forse era vento, o forse il fuoco. O forse niente.
Mi son fermato, però. Per esser certo.
Ho chiuso gli occhi. Attento, ho ascoltato.
E un brivido, stavolta, nella schiena l’ho avvertito.
Mi si è gelato il sangue, a quel che ho udito.
Una nenia dolce, flebile, di solo mormorato.
Diceva piano, e dolce, “ungiornolammazzato”.

Oddìo.

Son caduto seduto, incredulo e anche spaventato.
La voce la sentivo. Tenera, flebile e chiara.

Cantava, si.

Cantava, quel rosso frutto o ortaggio o cos’altro diavolo era.
Cantava una lenta litania, che raccontava.
Diceva di una storia, fatta di campagna.

Che la campagna è fredda, come nessuno sa.
Ti spacca le mani, e la schiena anche.
E quando torni a casa, non c’è niente. Niente, per te.
La storia era quella di una donna. Quella di una donna che nessuno sa.
Una donna senza nome, perché non ha importanza, e perché ha tanti nomi, e anche tanti volti. Sconosciuti.
E tante mani.
Ed erano tutte uguali. Forti. Dure. Spaccate di gelo e acqua e panni stesi e polvere e terra e lacrime asciugate.

Asciugate da occhi che non avevano tempo per il mondo.
Occhi che era ancora notte, e guardavano fuori uscendo, dopo aver lasciato, nel forno, qualcosa da mangiare.
Occhi che si abbassavano, per poter lavorare.
Quando c’era, il lavoro.
Quello di giornate intere a guardar per terra, a raccogliere qualcosa ed a riempir cassette.

E cassette, e cassette, e cassette, e cassette, e cassette.
Per poi la sera ritornare, senza pensare. Dal finestrino a guardar la strada, e il sole tramontare.
E tutto sulla schiena. Tutto.
E lavare, e ancora cucinare.
Senza sognare. Senza desiderare.

Cercando di dimenticare. Quel lercio odore, quelle mani, quel padrone frugare, e ansimare.

Senza neanche pensare, di potersi ribellare.
E tacere, e subire.
E quand’era ancora notte, uscire ancora.
E poi ancora. E ancora.
Eppure vivere. Vivere dentro.
Vivere ad ogni costo.

E poi il padrone. Il padrone.

Padrone di tutto. Padrone di vita, di anima, di corpo.

E un’altra piccola vita, dentro.
E ancora andare avanti.
E lavorare, e vedere il sole tramontare.
E subire, senza sognare.
E chiedere qualcosa, un giorno, quello si.

Chiedere al padrone.

E quello colpisce.
Colpisce in faccia. Alla pancia, alla schiena.
Colpisce duro, se non fai quello che vuole.
Non devi. Non devi. Non devi fiatare.
Non devi chiedere, solo aspettare.
Aspettare quel lercio odore, quelle mani frugare, e ansimare.
E lavorare, e silenzio.

Eppure, nel cogliere qualcosa, si accarezzano le piante, per tutte quelle ore.
Se quella è tutta la tua vita, si può staccarne il frutto con dolcezza, tenerezza.

Anche con gli occhi bassi a cuocere la schiena sotto il sole.
In fondo per le piante, si sa, ci vuole amore.
Anche se non sono tue. Anche se le vedrai morire.
E loro l’aspettavano, alla fine.

Quand’era l’alba la vedevano arrivare. Chi le sa ascoltare, le avrebbe sentite gioire.
Era delicata, lei. Non era far del male. Non prendere il frutto, ma a lei era donarlo, maturo.
E tutte le foglie, ormai, sapevano com’era. Nei campi, nelle valli, di lei si sapeva, ed un lieve fruscìo la salutava, come una nenia di benvenuto, la si poteva udire. Solo per chi può, però. Chi può capire.
E così ogni giorno, ogni alba, ogni tramonto.

Eppure.
Eppure.

Venne un’alba senza lei.
Un’alba senza amore.
Un’alba di silenzio.
Che lei non c’era ancora.
E poi non venne più.
Mai più.
Perché un giorno, s’è levata.
La schiena, diritta.
Lo sguardo, di fronte.
Le mani, pulite.

La vita, padrona.
Padrona, oggi. Padrona di me.
Io che davvero, non ho mai sognato. Oggi mi prendo, quello che è mio.
E tutto si è saputo, si è capito.
L’hanno portata via. Lontano.
Che lei non tornerà. Non tornerà mai più.
Non la faranno tornare.

E allora quelle foglie hanno iniziato a danzare, come fosse un saluto, per poterla ricordare.

E per tutte le donne, che all’alba vedono arrivare, cantano una nenia, che è in fondo la sua storia.
E la storia anche di altre. Tante. Troppe.
E quel frutto rosso, per chi lo sa ascoltare, canta silenzioso. Canta quella storia.
La storia di una donna, che si è sacrificata.
Che in fondo lo sapeva, che ci andava a morire.
Morire tutto insieme, e non lentamente.
E la nenia dice, dolce: “ungiornolammazzato”

Image credit: Venosa, Parco archeologico www.sassilive.it

di Nicky persico, su ORA LEGALE news: facciamoci-del-mare

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