L’evidenza invisibile
di Paola Di Nicola (Giudice del Tribunale di Roma)
Chi è digiuno della feconda elaborazione femminile e femminista sulla questione della presenza delle donne nelle istituzioni, costruite al maschile per millenni, potrebbe chiedersi se davvero esistano ancora ostacoli culturali e sociali in magistratura. La risposta è si, anche nell’avvocatura e in qualsiasi altro ambito.
Partiamo dalla lingua, arma di potere che costruisce l’identità, senza chiedere il permesso. Governante al maschile è colui che governa un Paese. Al femminile, la governante è colei che cura la casa.
Questo costituisce il nostro sostrato culturale e crea la nostra identità. Formazione, storia e cultura entrano prepotentemente nell’interpretazione.
La storia del genere maschile e del genere femminile, l’esercizio del potere dell’uno con la scientifica esclusione dell’altro, hanno inciso sull’identità di ciascuno facendo la differenza nell’interpretazione, nella relazione e nell’empatia con qualsiasi parte processuale.
Ma ci vuole consapevolezza di genere per capirlo e per evitare l’omologazione, altrimenti noi donne riproduciamo un modello maschile che non solo non siamo in grado di imitare, ma quando ci proviamo ci rendiamo più uomini del peggiore uomo.
Non farci apprezzare la nostra differenza di donne è un quotidiano lavoro di secolare gestione maschile del potere che ha posto se stesso come unico parametro. Noi donne non esistiamo e se esistiamo non valiamo nulla.
Non c’è male come risultato: restare unico ed indiscusso modello.
Per vederlo ci vogliono le lenti di genere, cioè la orgogliosa consapevolezza del proprio femminile, di quel femminile contro il quale si sono scagliati millenni di misoginia.
I vocabolari conoscono da pochi anni la parola che descrive la repulsione per gli uomini, la misandria.
Vedere tutto questo fa molto male perché mette in crisi tutto ciò che si è costruito fino a quando si sono aperti gli occhi. In ogni luogo, in ogni contesto, si esprime una scientifica operazione di svalutazione del nostro genere e l’apoteosi di quello maschile. Anche da parte delle stesse donne.
Guardare in una prospettiva di genere è un esercizio quotidiano. Un esempio? Contare le relatrici ai corsi della Scuola Superiore della Magistratura o nei panel di luoghi che contano.
Se si parla di corruzione o criminalità organizzata neanche una, sulla violenza di genere compaiono come per magia.
La ragione è che corruzione e mafia valgono molto nell’immaginario collettivo e sono ritenute la vera criminalità, invece i reati contro le donne sono da tutti ritenuti di scarso valore, infatti non permettono di fare carriera.
Gli uomini ci sono dove c’è potere, le donne dove c’è lavoro. Ci fanno credere che questo avvenga perché le donne si tirano indietro. Non è così: le donne sanno a) che arriveranno solo se proposte da un uomo a cui quel nome femminile serve; b) non conteranno nulla a meno che non siano eccezionali (gli uomini possono essere normali…), c) dovranno trasformarsi in uomini.
Per 20 anni mi sono firmata al maschile, “Il giudice”, pur essendo una donna; per 20 anni non me ne sono accorta, mi sembrava normale. Françoise Héritier, antropologa femminista, la chiamava l’evidenza che non si vede.
Un giorno mi sono chiesta perché mi facessi uomo solo nel firmare le sentenze, ho indossato le lenti di genere e ho utilizzato orgogliosamente il mio articolo determinativo femminile.
La mia piccola rivoluzione ha fatto sì che in ogni udienza dovessi spiegare a qualcuno la ragione di quel femminile che appariva eccentrico e fuori luogo perché, mi dicevano, l’istituzione è neutra. E no, questo è l’ennesimo trucco: le donne sono state escluse dalla magistratura fino al 1963 solo perché donne.
Questo vuol dire che la nostra, come qualsiasi altra, non è affatto un’istituzione neutra, è un’istituzione che vede benissimo la differenza tra maschile e femminile tanto da essere stata appannaggio solo degli uomini fino al 1963. Sono passati più di 50 anni, siamo oltre la metà in magistratura.
Ma il terrore millenario del nostro ingresso ha generato quella rivoluzione che ci sbarrava le porte? Sarebbe importante capire cosa è cambiato interpretativamente con il punto di vista femminile.
Quel che è certo è che non siamo adeguatamente rappresentate, non abbiamo potere simbolico. Non è piacevole vederlo, si preferisce ritenere che la differenza di genere in magistratura non esista perché l’istituzione è neutra. Le giovani magistrate (65 %) che partono per la prima sede confessano sottovoce di temere il pregiudizio di cui saranno vittime per il loro desiderio di avere figli o per la gonna che indosseranno, sentendosi un “problema da risolvere” per colleghi, capi, avvocati: è un tema istituzionale.
Non basta la presenza delle donne, c’è necessità di consapevolezza della storia e del valore del femminile, negare il nostro genere, a partire dalla lingua, è il più grave tradimento che possiamo fare a noi stesse e alla toga che indossiamo.
Photo credit: Pixabay
Della stessa Autrice, su Ora legale News: le-parole-giuste
La giudice. Una donna in magistratura, Paola Di Nicola, Ed. 881, 2013
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